La ammiro la prima volta tardivamente e per caso in un assolato pomeriggio palermitano, in cui si è trovato riparo nelle sale di Palazzo Normanni. In un’esposizione temporanea dedicata al Novecento Italiano non poteva mancare lui: Renato Guttuso; non poteva mancare lei: Vucciria. Imponente e magnifica tela colma di colori, di storie, di vita e verità.
Dapprima mi perdo tra i ritratti: la bella signora, il ragazzo dagli zigomi spigolosi, la massaia dall’aria decisa, pescatori e contadini venuti in città. Un fascio di vite riunite in un unico luogo, in un’unica immagine: il mercato della Vucciria.
C’è tanta Sicilia in questo quadro. Guttuso dipinge l’opera a Roma, facendo portare nel suo studio le delizie da ritrarre direttamente dal mercato di Palermo, che, come italiche madeleine, fanno affiorare sulla tela i ricordi dell’artista.
La prospettiva è distorta, perché alla Vucciria i sensi vengono avvolti e stravolti. I profumi sono sfacciati, i colori parlano e il palato vive a ogni sguardo. Il vociare dei banchi riempie tutta l’aria, che rimane densa intorno alle poche luci, che si impongono come pilastri in questa sinfonia popolare.
Questo quadro è un romanzo che ti inonda, è la passeggiata del giovane Renato che, dalle campagne di Bagheria, assapora l’esperienza del mercato, l’esperienza della vita. Perché tra i banchi c’è lei: la donna, protagonista con le sue curve bianche che spiccano oltre i colori.
Ma è proprio con quel profilo che Guttuso ci porta su un altro livello, va oltre il sublime romanzo verista, che ci ha affascinato fino a ora, e trasforma questa tela in un capolavoro.
Perché nel quadro la donna non è solo l’oggetto del desiderio ma ne è anche il simbolo e così a cascata il nostro sguardo ripercorre il dipinto e trova tutti gli archetipi fondamentali della nostra umanità. La femmina e il maschio, dove lui è al centro della composizione vestito dei colori della terra. La morbida sensualità dei frutti colorati e il virile nerbo del pesce spada ancora contratto (si dice che Guttuso si sia ritratto nei lineamenti del giovane pescivendolo).
E infine l’energia vitale, che sgorga dalle carni e si sprigiona dai frutti, alla quale fa da contrappunto la leggera bordatura nera che cinge ogni figura. Guttuso ci ricorda che non c’è vita senza morte e che la grandezza di ogni cosa passa attraverso la sua identità tragica. Perché il pathos lega i concetti alla nostra anima, lasciandoci dentro non un racconto verista, non un’immagine reale, ma il profondo senso della verità.